Duccio Canestrini è antropologo, scrittore e giornalista, ha insegnato antropologia del turismo a Trento e ora è docente al Campus universitario di Lucca. Per molti anni ha viaggiato in tutti i continenti da inviato del mensile “Airone”. Recentemente è uscito per Bollati Boringhieri Trofei di viaggio “una piccola rassegna delle cose, utili e inutili, che riportiamo a casa dopo i nostri viaggi”. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo in una fredda serata di febbraio presso la nostra agenzia viaggi a Rovereto.
L’antropologia studia l’uomo dal punto di vista del suo comportamento sociale. Che cosa la diverte di più nell’essere antropologo oggi?
Mi divertono le differenze ma al tempo stesso le somiglianze tra culture, apprezzo la peculiarità di ogni popolo. Credo che il viaggio avvicini le persone e le culture. Viaggiare è come leggere libri, si impara sempre, però bisogna farlo con lo spirito giusto e la mentalità aperta, anche all’imprevisto.
I viaggiatori dell’800 vedevano l’imprevisto come una sciagura, una perdita, un disastro. Dobbiamo convincerci invece del contrario: il viaggio è osservazione, partecipazione, esposizione all’insolito.
L’antropologia sembra essere cambiata negli ultimi tempi: ci spiega come?
L’origine dell’antropologia risale alla prima metà del 1800 quando l’approccio era di tipo fisico e le caratteristiche umane dipendevano unicamente dal fattore geografico: c’erano i cinesi, gli americani, gli africani. Questa impostazione è stata superata, l’umanità appartenente a un’unica specie, Homo sapiens, e sì, l’antropologia si è evoluta, da fisica è diventata culturale, studia i rapporti tra le diverse etnie, esamina usi e costumi mettendoli dal punto di vista “morale” tutti sullo stesso piano.
Come si può incuriosire ancora il viaggiatore? Sui social network sembra oramai che tutti abbiano visto tutto.
Dilaga una sorta di collezionismo di destinazioni, che poi è una vecchia storia. Faceva parte del prestigio e del bagaglio del viaggiatore del passato, quando intraprendere un Grand Tour era sinonimo di buona reputazione e rispettabilità riservata a poche famiglie abbienti; corrisponde ad un’idea di performance del turismo, una prestazione. Raccontare e rappresentare un viaggio sui social oggi è retaggio di una antica convinzione di privilegio che in realtà oggi si possono permettere in molti, se non tutti.
Per essere originali forse oggi occorrerebbe puntare sugli aspetti culturali, sociologici ed etici di un viaggio, andando oltre l’ostentazione finalizzata a incassare i like.
La curiosità è fondamentale per chi cerca queste peculiarità: bisogna “attaccare bottone” con la gente del luogo per scoprire quello che sta nel cono d’ombra, dietro l’angolo del bungalow.
Ricordo che una volta mi sono avventurato di buon mattino in un panificio a Sharm el Sheikh: probabilmente chi va sul mar Rosso in vacanza cerca ben altro che il pane appena sfornato prima del levar del sole. Eppure questo piccolo episodio mi ha portato a conoscere alcuni abitanti del posto che mi hanno accompagnato alla scoperta delle alture alle spalle di Naama Bay: non le avrei mai scoperte se avessi fatto unicamente sette giorni di mare, chiuso tra resort, piscina e spiaggia.
Molti paesi inoltre hanno usanze e consuetudini diverse dalla nostra: prima di partire, per esempio, aiuterà sapere che cosa non fare durante il viaggio. Ricordatevi che prepararsi prima della partenza significa fare già metà del viaggio. Anche leggere un romanzo ambientato nella regione che visiterete è un buon modo per entrare in sintonia con il luogo.
In “Trofei di viaggio” Lei racconta che l’uomo è Photograficus cioè ha la necessità di documentare con selfie e immagini la vacanza. Che cosa pensa di questa tendenza che può portare, lo abbiamo visto da recenti fatti di cronaca, anche a rovinarsi in viaggio?
A quanto pare abbiamo bisogno di mostrarci capaci di imprese straordinarie. Forse è una reazione all’appiattimento dell’individualità che porta a dover mostrare il valore di noi stessi. In questo senso siamo un po’ viziati dalla società dello spettacolo che mette al primo posto l’apparire, la forma e non la sostanza.
Chi lavora ha bisogno di evadere dalla routine, cercare una fuga dalla quotidianità che permetta di uscire dalla comfort zone. Alla scrivania e al divano di casa si fa ritorno ricaricati e rigenerati.
“Se qualcuno aprisse una INUTILERIA farebbe certamente buoni affari”. Ci ricorda quali sono i souvenir più strani, più insoliti ma anche i più azzeccati nella Sua carriera di grande viaggiatore?
Ho iniziato a collezionare souvenir quasi senza volerlo molti anni fa, poi durante il lockdown del 2020 ho rispolverato scatoloni dimenticati in cantina che contenevano gli oggetti più strani accumulati negli anni: semi di piante amazzoniche, statuine indiane in ebano, coltelli etiopi.
.Gli articoli industriali sono sempre gli stessi da decenni: i materiali di cui sono fatti ma anche la tipologia di oggettistica è desolatamente sempre uguale, è facile indovinare dove venga prodotta o da dove venga massicciamente importata. Un souvenir che mi sta particolarmente a cuore è una pietra nera regalatami da un indiano Hopi dell’Arizona: a prima vista è una normale pietruzza nera, ma se guardata in controluce appare trasparente. Porto sempre con me l’insegnamento di quel nativo: un problema non è mai insormontabile, dipende da quale angolatura lo consideri.
Il souvenir più Kitsch della sua collezione?
Una “palla di neve” dell’Alto Adige (scoprite sul mio libro perché la “palla” è il souvenir più venduto al mondo e perché affascina così le persone); contiene un camoscio arroccato su un dirupo, accanto a una baita: se la scuotete genera un turbinìo di fiocchi di neve tremendamente gialli, perché ormai sono vecchi!
Il folklore come antidoto al rischio dell’estinzione di un popolo e delle sue usanze: lo fanno gli Indiani nelle riserve, lo sono i carnevali storici, la corsa dei tori di San Firmin. La gente cerca ancora il Folklore in vacanza?
Premetto che sono contrario alle corride! In realtà ormai è il folklore che cerca i turisti. Le danze “tradizionali” entrano nei villaggi turistici e nelle hall degli alberghi, mettendo in scena per qualche decina di minuti antichi rituali che originariamente si svolgevano nell’arco di ore. Ci si accontenta di una condensazione, di un riassunto superficiale, perché la vacanza è breve e al turista bisogna dare tutto e subito. Quasi sempre le danze e i riti polinesiani e africani si mostrano in un concentrato che ne snatura la vera essenza.
Gli articoli dei duty free degli aeroporti: sono l’ultima spiaggia per far credere a qualcuno “mi sono ricordato di te?”
È il dazio da pagare per chi non ha avuto tempo di passare al mercato! Perciò sono articoli generalmente costosi, salvo qualche eccezione. Se vogliamo vedere l’aeroporto nel suo complesso, da non-luogo è diventato un luogo vero e proprio: è frequentato, ci sono relazioni umane e scambi commerciali – e il film The Terminal lo ha evidenziato molto bene.
Negli ultimi vent’anni gli aeroporti siano diventati vere e proprie cittadelle blindate: dopo l’undici settembre non sono più riuscito a portare con me alcuni attrezzi da palestra che mi servivano per fare ginnastica in viaggio, così come ho dovuto abbandonare la mia passione per il collezionismo di coltelli. Ho un bellissimo ricordo degli aeroporti africani, specialmente quelli minori: dalla zona del check-in ci si avviava a piedi lungo le piste di decollo, verso l’aeromobile; nessuno si allontanava dal tracciato indicato. Oggi siamo tutti stipati negli autobus aeroportuali o incanalati nei manicotti di imbarco.
Ci piacciono gli aneddoti: ce ne racconta uno?
Sono stato rapinato diverse volte, anche con violenza: a Panama, in Mali, in Madagascar e l’esperienza vissuta mi ha insegnato ad essere più prudente. Sono stato derubato di soldi e biglietti aerei in un’epoca in cui non era così facile avere a breve un duplicato o farsi trasferire del denaro; per fortuna a quel tempo ero inviato per la rivista Airone e l’editore non mi ha mai lasciato a piedi. Se da un lato è necessaria la dovuta cautela quando si tira fuori il portafoglio in un luogo affollato, bisogna poi valutare senza paranoie ogni singola situazione e le persone che ci circondano. Di fatto, la gente muore di più a casa propria, raramente in viaggio.
Oggi viviamo una sorta di ossessione per la sicurezza, che ci induce a credere che tutti i posti sconosciuti siano pericolosi o potenzialmente violenti. Personalmente ho vissuto esperienze dure come l’Afghanistan o l’Iraq in guerra: viaggi impegnativi dove era necessario stare molto attenti, ma sono state occasioni di crescita e di arricchimento personale intense e coinvolgenti.
In conclusione vogliamo sempre lasciare un messaggio positivo a chi ci legge: qual è l’antidoto al Kitsch, al pacchiano, alle “piccole cose di pessimo gusto” ?
Riderci sopra, l’ironia!