Abbiamo intervistato Federica Zanini, giornalista specializzata in turismo, addetta stampa e traduttrice, milanese d’adozione e vicentina nell’anima; l’abbiamo incontrata a Camposilvano di Vallarsa dove trascorre le vacanze nella casa di famiglia assieme al marito Paolo, i figli e la madre. Federica è figlia d’arte in quanto prosegue il mestiere che era del padre Giuseppe – giornalista prima al Corriere dei Piccoli e poi al Corriere della Sera, nonché autore di libri per bambini e ragazzi e di guide turistiche – proprio come il fratello di Federica, Luca, giornalista del Corriere della Sera, oggi web e social editor di 7Magazine, con una passione per viaggi, natura, ambiente e sostenibilità. In questo pomeriggio di fine agosto lo sguardo spazia tra le Piccole Dolomiti e il Pasubio e Federica risponde volentieri alle nostre domande con la simpatia e la cordialità di una milanese “di montagna”: ha trascorso i tre mesi del primo lockdown 2020 proprio a Camposilvano, ha proseguito la scorsa stagione estiva in quota e ogni anno ritorna in questo angolo di Trentino da dove riesce a conciliare famiglia, impegni professionali e riposo.
In che cosa consiste il tuo lavoro?
Sono una giornalista che scrive di turismo con una passione particolare per l’Italia e l’Europa, per le cose insolite, per i percorsi minori e poco conosciuti e sono convinta che abbiamo tanto da scoprire “dietro casa”. Ho lavorato per molte testate nazionali e ricordo con piacere la collaborazione con la rivista Gioia dove, fino a che è esistita, mi occupavo della rubrica viaggi: per ogni uscita partivo dalla tematica e non dalla destinazione. Proponevo cioè degli spunti a tema per mettersi in viaggio. Raccoglievo idee in giro per il mondo per esempio su “I viaggi in fiore”, itinerari verdi a caccia delle grandi fioriture nei giardini storici ma anche esperienze umane letteralmente sul campo, magari partecipando a semina o raccolto in agriturismo. E ancora, precorrendo i tempi, mi sono occupata dei mercatini di Natale prima del loro boom e dopo andando a scoprire quelli di nicchia. Ho proposto al lettore soggiorni in case sull’albero, festival storici, l’esperienza dell’albergo diffuso in anni in cui incominciava appena a diffondersi questa nuova tipologia di ospitalità. Da mio padre ho imparato una rigorosa etica professionale e la curiosità per gli itinerari insoliti fuori dai grandi circuiti turistici, là dove oltre il business riesci a scovare ancora l’umanità di chi ti accoglie.
Come è cambiato negli anni il mestiere del giornalista che scrive di viaggi e turismo?
Il giornalismo in genere è cambiato molto in questi ultimi anni; è sotto gli occhi di tutti il dinamismo esasperato della nostra epoca, la ricerca del tutto subito a scapito di riflessione e introspezione. L’affermarsi di internet e di un’informazione veloce hanno stravolto anche il concetto stesso di mass media e di giornalismo. Se osservate la pagina del Corriere online scoprirete che viene aggiornata più volte in una stessa mattinata, cambiano le notizie in primo piano, le fotografie, gli articoli vengono rivisti, la veste grafica di una notizia è modificata e integrata per dare l’idea del continuo aggiornamento e del costante divenire della notizia. Anche il mondo dei viaggi ha risentito fortemente di queste novità, gli operatori del turismo, in risposta alle nuove tendenze, hanno più vantaggio a coinvolgere un blogger o un influencer piuttosto che un giornalista, perché i primi sono più immediati, più veloci nel passare il messaggio. Un blogger va in Costa Azzurra e con le foto trasmette l’emozione del momento, un tramonto dalla terrazza più glamour di Cannes oppure una colazione da un piccolo giardino di St. Tropez. Io personalmente sono invece ancora affezionata all’idea di trasmettere emozione e colore, creare empatia con il lettore e cercare di fin dalle prime righe di catturarne l’attenzione e incuriosirlo, promettendo risposte che solo con la lettura dell’articolo avrà. Le foto dovrebbero essere un alleato prezioso del giornalista, ma siamo arrivati al punto che il lettore del 2.0 è oramai diseducato alla magia delle parole e presta attenzione più alle fotografie che ai contenuti (e questo ha rivoluzionato il giornalismo non solo a livello di prodotto, ma anche di compensi). Non è la stessa cosa di un tramonto sul mare, ma anche il giornalista in fondo è un fotografo solo che usa mente e cuore per trasmettere le immagini. Io per esempio cerco di partire da un dettaglio che mi ha colpito per poi allargare la descrizione al contesto e all’ambiente circostante, un po’ come si fa con una ripresa televisiva.
Che cosa non deve mai mancare e che cosa invece sarebbe meglio non scrivere in un articolo sui viaggi?
Fondamentale è la parte di servizio: dopo aver ispirato il lettore, avergli raccontato il piccolo aneddoto o la curiosità che non troverà sui libri o su internet è necessario fornire numeri, indirizzi, costi ed eventualmente il nome del tour operator. Quando scrivevo per Il Piccolo di Trieste mi era stato chiesto di proporre esempi di sistemazioni alberghiere che tenessero conto di tutte le tasche, così indicavo sempre l’indirizzo di un alberghetto a conduzione familiare accanto a quello di un cinque stelle: un piccolo particolare “democratico” che arrivava alle varie fasce di lettori e sottintendeva che viaggiare è e deve essere alla portata di tutti. Per me è anche una questione etica: non vengo pagata da nessuno per fare pubblicità occulta e le mie scelte sono libere. Un articolo dovrebbe essere neutrale, equilibrato ed equo e non sottostare a logiche di denaro e di promozione nascosta; in questo ritorna il rigore professionale che mi ha insegnato mio padre, il quale è stato anche fondatore e primo presidente del GIST, gruppo italiano stampa turistica, negli anni ’80 del secolo scorso, proprio con l’intento di riunire giornalisti di viaggio dalla professionalità ed etica garantite.
Che tipo di viaggiatrice sei?
Sono introspettiva, curiosa e cerco le emozioni, non quelle forti per intenderci, quelle che scaldano il cuore. Non amo i posti caldi ed esotici, tra il mare Mediterraneo e la Danimarca scelgo la Norvegia (ride). Ho le idee molto chiare, so con certezza quello che voglio. Sono impulsiva ma non azzardata, nel lavoro come nella vita. Per me una destinazione non è solo geografica, non è fatta solo di bellezze artistiche, naturali o architettoniche ma è soprattutto il riassunto della sua gente, i suoi sapori e della sua identità culturale. Mi piace il monumento, certo, ma faccio volentieri anche due chiacchiere con il custode per poter carpire la vera essenza di un luogo che alla fine è fatto dalle persone e dalle loro emozioni. Mi piace la tradizione che sopravvive anche nei posti turisticamente più attrezzati e in questo mio marito Paolo, bergamasco di Lovere, mi segue e mi asseconda.
Quale è il tuo luogo del cuore?
Senza nessun dubbio Camposilvano di Vallarsa, in Trentino. Anche se spesso mi rifugio, anche per una questione di vicinanza, a Sale Marasino sul Lago d’Iseo in provincia di Brescia. I miei ricordi più cari sono tra queste montagne dove sono arrivata la prima volta letteralmente in fasce: scesa di corsa a Vicenza nel pancione, partorita e riportata subito a Camposilvano per la mia primissima “estate da Heidi”. I miei genitori hanno scoperto questo luogo perché mio zio guidava le corriere che durante la stagione estiva collegavano la città di Vicenza con il paese: è stato grazie a lui se si sono innamorati di queste montagne. Noi bambini lo aspettavamo a Camposilvano, al capolinea, e lui dopo aver fatto scendere i passeggeri ci faceva salire finché faceva le necessarie manovre per preparare l’autobus per la ripartenza in direzione della pianura: ci pareva di fare chissà che viaggio! Poi, emozione su emozione, gelato per tutti al bar del paese! Eccole le piccole cose che ritornano sempre, i rituali e le “avventure” che sopravvivono al tempo e che trasformano semplici gesti quotidiani in un tesoro cui attingere sulla strada della vita.
Ci racconti un aneddoto legato a un tuo viaggio?
In Messico, negli anni ’90. Ero stata inviata da Travel Quotidiano, rivista di settore per agenti di viaggio di cui ero redattrice ed eravamo in una zona turisticamente sconosciuta; ci spostavamo con il “Chihuahua-Pacífico”, un treno che collegava le montagne più alte con le zone più sperdute delle foreste e il mare. Siamo partiti dalla Barranca del Cobre, il Canyon del Rame, dove le stazioni erano una semplice tettoia e dove l’orario era puramente indicativo: tu andavi lì e aspettavi, senza sapere quanto. Nel frattempo dalla vegetazione sbucavano gli indigeni Tarahumara, tribù autoctona reticente e molto riservata anche perché nei secoli a lungo perseguitata, che vive in capanne nella foresta, e si avvicina ai “civilizzati” solo per vendere cestini intrecciati con aghi di pino, scialli colorati e bamboline scolpite nel legno. Non erano certo loquaci e si mantenevano schivi, eppure quell’incontro era carico di umanità. Emozioni la cui unicità acquistava ulteriormente valore quando si arrivava infine nel cosiddetto “Messico per Gringos”, punteggiato di località ultra-turistiche come Cancun, molto amate appunto dagli statunitensi e molto standardizzate all’insegna del lusso. Un’esperienza di grandi contrasti, quella in Messico, che ancora ricordo ancora oggi con piacere e nostalgia.
Come immagini il mondo tra cento anni?
Nessuno inventa nulla di nuovo, le mode passano poi ritornano in tutti gli aspetti della vita e così anche nei viaggi. Mi piacerebbe si tornasse a un turismo lento e consapevole, ma non perché adesso è di moda lo slow, semplicemente perché è l’unico vero modo di viaggiare inteso come conoscere, vivere, capire. Un turismo dove la tecnologia è d’aiuto, ma non la fa da padrona. Quando, tra non molto ormai, si viaggerà nello spazio, mi piacerebbe che non ci si dimenticasse di riscoprire il “giardino della porta accanto”, che non si perdesse la facoltà di assaporare le sensazioni, le emozioni i sapori e gli odori di quello e quelli che stanno a un tiro di schioppo invece che di navicella. Spero manterremo, come uomini, la comunicazione sensoriale: viaggiare con i piedi ma anche con il tatto, gli occhi, le orecchie, il gusto e le narici. Quello che deve sopravvivere è un turismo da vivere, non da vetrina. Sta a noi apprezzare quello che abbiamo, alle Maldive come a Cesenatico, usare quella curiosità che era dei nostri padri e dei nostri nonni, adattandola al mondo di oggi iperconnesso. Non smettere mai di cercare il dettaglio nascosto, guardare dietro alle quinte e scovare quello che più ci emoziona. Il viaggio, insomma, non può essere solo macinare chilometri, ma disponibilità a cambiare prospettiva.